«La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni»
Il maxiprocesso a Cosa Nostra
Il maxiprocesso è il traguardo più importante del lavoro di Giovanni Falcone e del pool antimafia di Palermo, uno spartiacque nella lotta alle cosche.
Per la prima volta in un’aula di giustizia compaiono il gotha di Cosa nostra e decine di estortori e uomini d’onore.
Grazie alle rivelazioni dei pentiti Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno e alle meticolose indagini del pool si riesce a ricostruire l’organigramma mafioso, si svelano traffici illeciti e si individuano i responsabili di 120 omicidi.
Dopo 349 udienze la corte si ritira in camera di consiglio. Ne esce con il verdetto 35 giorni dopo. 346 le condanne e 114 le assoluzioni. I giudici infliggono 19 ergastoli e 2265 anni di carcere a capimafia, “colonnelli”, gregari e picciotti.
La sentenza conferma la tesi di Giovanni Falcone: Cosa nostra è un’organizzazione unitaria e verticistica.
I numeri del maxiprocesso
Il rapporto dei 162
In principio fu il rapporto dei 162, un meticoloso lavoro investigativo che possiamo considerare l’embrione del maxiprocesso alla mafia.
I risultati del lavoro di Cassarà, costruito grazie al coraggio e all’intuito di un gruppo di investigatori costretti a operare senza mezzi e rischiando la vita, verranno confermati dalle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta che darà ai magistrati altri decisivi elementi contro i clan.
Tommaso Buscetta
È l’alba del 19 gennaio del 1959. Dal peschereccio “Carmelo S”, che si accosta a motore al minimo alla foce del Neto, un torrente della costa jonica calabrese, quindici uomini cominciano a scaricare sigarette di contrabbando. Li arresta la Guardia di Finanza: sono tutti palermitani. Tra loro c’è Tommaso Buscetta, 31 anni.
Comincia così la storia giudiziaria di uno dei più noti narcotrafficanti di Cosa nostra. Il 23 giugno ottiene la libertà provvisoria e scompare.
Sono gli anni della prima grande guerra di mafia a Palermo. “Don Masino” fa la spola tra la Sicilia, gli Usa e il Brasile: lo chiamano il “boss dei due mondi”. Il plenipotenziario della mafia di Palermo sul mercato dei narcotici è lui. Fino al 1971 è un fantasma. Poi l’Fbi lo intercetta a New York, in una pizzeria del “Village” che sforna grosse partite di eroina destinate al mercato al dettaglio. 75mila dollari di cauzione ed esce dal carcere. Una piccola somma per uno che si soldi ne ha già fatti a palate. La polizia brasiliana lo arresta di nuovo.
Buscetta viene estradato in Italia e dinanzi ai giudici che gli contestano delitti, traffico di narcotici, associazione a delinquere, recita il copione del ”perseguitato dalla polizia”. Ottenuta la semilibertà torna uccel di bosco e si rifugia in Sudamerica. Ma in Italia lo scenario della mafia è mutato. A Palermo c’è la guerra e lui, che ha abbandonato i suoi alleati, si trova dalla parte sbagliata. I suoi amici vengono sterminati. Buscetta, nel dicembre del 1982, torna in incognito per riorganizzare le fila dei “perdenti” e sferrare la controffensiva. E’ impresa disperata che pagherà a caro prezzo. Tra Natale e Capodanno del 1982 gli uccidono due figli, un fratello, un nipote, il genero, due cugini. “Don Masino” è costretto a riparare precipitosamente a Rio dove, nell’ottobre dell’83 la polizia lo arresta di nuovo.
La sua opposizione legale all’estradizione chiesta dall’Italia è disperata. Quando si rende conto di avere perso tutte le mani della partita, tenta il suicidio con il veleno. Viene salvato. Ma quell’episodio per Falcone, che lo ha già interrogato durante la detenzione in Brasile, è la “spia” che il momento è maturo per ottenerne la piena collaborazione. Ha ragione.
Buscetta decide di saltare il fosso ed è un fiume in piena.
Comincia a verbalizzare raccontando cosa è la mafia, come è strutturata, ne ricostruisce traffici, affari e parla di decine di omicidi. Dell’organizzazione e del funzionamento di Cosa nostra fino ad allora non si sa nulla. Le sue rivelazioni hanno un valore incalcolabile e danno agli investigatori la chiave per aprire la porta su un mondo sconosciuto. Per mantenere la segretezza Buscetta parla solo con Falcone che verbalizza a mano. Dopo due mesi di interrogatori ce ne è abbastanza. Il 29 settembre del 1984, la notte di San Michele, grazie alle dichiarazioni di “don Masino” finiscono in carcere 366 mafiosi.
Il blitz di San Michele
Man mano che Buscetta parla, i magistrati cercano riscontri, esaminano documenti bancari, rivedono rapporti di polizia del passato come quello di Ninni Cassarà.
Nel settembre 1984 si decide di passare all’azione. E il 29, il giorno di San Michele, finiscono in manette 366 persone tra cui personaggi eccellenti come gli esattori di Salemi, i potenti Nino e Ignazio Salvo. Nell’ottobre del 1984 un altro mafioso, Salvatore Contorno, comincia a parlare.
E’ scampato a un attentato e ha visto assassinare 35 tra parenti e amici.
Contorno conferma le rivelazioni di Buscetta e nel giro di pochi giorni vengono spiccati altri 127 mandati di cattura.
Il rinvio a giudizio
L'aula bunker
Vista la mole del processo – oltre 400 imputati, 200 avvocati, 600 giornalisti accreditati, serve uno spazio idoneo. In sette mesi, accanto al carcere Ucciardone, per consentire un trasferimento in sicurezza dei detenuti, viene realizzata un’aula bunker. I giornalisti la chiameranno “l’astronave verde”.
Di forma ottagonale, con 30 gabbie per i detenuti, dotata di sistemi di protezione tali da resistere anche ad attacchi missilistici, costerà 36 miliardi di lire. I lavori di costruzione durano sette mesi, domeniche comprese.
La corte d'assise e i PM
Trovare giudici disponibili a presiedere la corte d’assise chiamata a celebrare il maxiprocesso non è facile.
Dopo il no di 10 magistrati, l’incarico viene dato ad Alfonso Giordano, presidente di Corte d’assise da pochi mesi, una vita passata al civile.
Il giudice a latere è Piero Grasso. La corte è composta da sei giudici popolari.
A rappresentare l’accusa in giudizio sono i pubblici ministeri Domenico Signorino e Giuseppe Ayala.
Gli imputati
E poi ci sono gli imputati, i mafiosi: 475 alla prima udienza, scesi a 460 dopo lo stralcio di alcune posizioni.
Alla sbarra nomi eccellenti di Cosa nostra come Luciano Leggio, Pippo Calò, il cassiere della mafia, Salvatore Montalto, Michele Greco, arrestato a processo in corso. Interrogato dalla corte, dirà: “la violenza non fa parte della mia dignità”. Contumaci Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, mentre Tano Badalamenti, il boss di Cinisi, detenuto negli Stati Uniti, viene giudicato in contumacia.
Le accuse sono associazione mafiosa, traffico di droga, rapine, estorsione e 120 omicidi.
Il dibattimento
La prima udienza viene celebrata il 14 febbraio del 1986. 349 udienze, decine di interrogatori e lo storico confronto tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò, il cassiere della mafia.
Calò ne esce decisamente sconfitto, tanto che altri mafiosi che avevano chiesto il faccia a faccia col pentito ci ripensano. Nell’astronave verde vanno in scena proteste dalle gabbie, finti malori, le urla di mogli e figlie dei boss, testimonianze drammatiche: come quella Vita Rugnetta, la donna a cui la mafia aveva ucciso il figlio, che sfida i boss nelle gabbie esibendo in aula la foto del ragazzo assassinato.
Una richiesta di ricusazione del presidente della corte rischia di far saltare il processo. Verrà rigettata dalla corte d’appello. Il secondo intoppo arriva alla fine del 1986, quando alcuni legali chiedono la lettura integrale di tutti gli atti. Avrebbe richiesto due anni di tempo e comportato il rischio di scarcerazioni di massa. Servirà una legge, emanata in tutta fretta nel 1987, per evitare lo stallo.
Per scongiurare la scadenza dei termini di custodia cautelare di diversi imputati detenuti la corte lavora a ritmi serrati. Si tiene udienza ogni giorno, sabati compresi.
Requisitoria e arringhe
I pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino cominciano la loro requisitoria il 22 aprile del 1987. Un j’accuse lungo 12 giorni che si conclude con la richiesta di 28 ergastoli, 5000 anni di carcere, 24 miliardi di lire di multa e 45 assoluzioni. Poi è la volta delle parti civili e degli avvocati degli imputati. In tutto le arringhe sono 635.
La sentenza di primo grado
L’11 novembre 1987, la corte d’assise si ritira in camera di consiglio. Michele Greco “il papa” prende la parola prima che i giudici escano dall’aula e rivolge un sinistro augurio al presidente Giordano. “Le auguro la pace”, dice al magistrato.
Per 35 giorni i giudici, totalmente isolati dal mondo, lavorano al verdetto.
Il 16 dicembre 1987 Giordano legge il dispositivo. Impiega un’ora e mezza per completare le 54 pagine con i nomi e le pene inflitte ai 346 condannati, 74 dei quali processati in contumacia. 19 ergastoli, 2665 anni di carcere e multe per 11,5 miliardi di lire. Gli assolti sono 141.
Il giudizio di appello
Il processo d’appello prende il via il 22 febbraio del 1989 e si conclude il 10 novembre del 1990, giorno in cui la corte d’assise d’appello entra in camera di consiglio.
Alle dichiarazioni di Buscetta e Contorno si aggiungono quelle di nuovi pentiti come il catanese Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia e Giuseppe Pellegriti. La sentenza, pronunciata dal presidente Vincenzo Palmegiano il 10 dicembre 1990, ridimensiona molto il verdetto di primo grado.
Gli ergastoli passano da 19 a 12, le pene detentive vengono ridotte di oltre un terzo, scendendo a 1576 anni di reclusione. 86 i nuovi assolti.
La Cassazione
Per la mafia è l’ultima chance. I magistrati temono che il processo finisca alla prima sezione della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, fine giurista, autore di numerosi annullamenti eclatanti, non a caso definito l’ammazzasentenze.
Giovanni Falcone che nel frattempo si è trasferito a Roma al ministero di Grazia e Giustizia, sulla scia delle clamorose pronunce di Carnevale avvia uno screening sui suoi verdetti.
Per evitare polemiche, il primo presidente della Cassazione impone il criterio della rotazione nell’assegnazione del processo e a presiedere la corte va il giudice Arnaldo Valente. Il 30 gennaio del 1992 i giudici romani confermano le condanne e annullano gran parte delle assoluzioni decise in appello.
Reggono i principi dell’unitarietà di Cosa nostra e della sua struttura verticistica. La quasi totalità delle pesanti condanne pronunciate in primo grado viene confermata e diventa definitiva.
È la fine del mito dell’impunibilità della mafia.
I documenti
Un viaggio in uno dei capitoli più importanti della storia giudiziaria recente del nostro Paese.
Potete trovare qui gli atti principali del primo maxiprocesso alle cosche mafiose palermitane. Abbiamo selezionato alcuni dei passaggi più significativi di un evento giudiziario che costituisce uno spartiacque della lotta a Cosa nostra come la sentenza ordinanza di rinvio a giudizio firmata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli interrogatori principali dei collaboratori di giustizia e le sentenze di tutti e tre i gradi di giudizio.