«L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza»
Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano che ha dedicato la sua vita alla lotta alla mafia.
Tra i primi a comprendere la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra, ha creato un metodo investigativo diventato modello nel mondo.
Rigorosa ricerca della prova, indagini patrimoniali e bancarie, ostinata caccia alle tracce lasciate dal denaro e lavoro di squadra sono stati i suoi fari, le armi con le quali, insieme al pool antimafia, ha istruito il primo maxiprocesso a Cosa nostra, il suo capolavoro. L’eccezionale impegno di un manipolo di magistrati guidati da Falcone dopo anni di assoluzioni per insufficienza di prove portò alla sbarra 475 tra boss e gregari di Cosa nostra e si concluse con 19 ergastoli e condanne a 2665 anni di carcere.
Oltre 40 anni fa Giovanni Falcone capì che le mafie si apprestavano a varcare i confini italiani e teorizzò l’importanza della cooperazione giudiziaria internazionale. A lui, al suo lavoro, al suo sacrificio è stata intitolata la risoluzione approvata all’unanimità da 190 Paesi nel corso della X Conferenza delle Parti sulla Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale che si è tenuta a Vienna ad ottobre del 2020.
Giovanni Falcone non si è mai sentito un eroe, ma solo un uomo dello Stato chiamato a fare il proprio dovere. Contro il mito negativo dell’invincibilità di Cosa nostra diceva: “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà una fine”.
L'infanzia
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio del 1939. Il padre, Arturo, era direttore del Laboratorio chimico provinciale. La madre, Luisa Bentivegna era casalinga. Terzo figlio dopo due sorelle, Anna e Maria, amava lo sport.
Cresce alla Kalsa, l’antico quartiere arabo nel cuore di Palermo, dove si intrecciavano destini diversi e dove era normale ritrovarsi a giocare a pallone col figlio del capomafia. A cinque anni comincia le elementari al Convitto nazionale. Ma è nell’ambiente familiare che assorbe i valori che lo guidano per tutta vita: la madre gli parla spesso dello zio bersagliere caduto sul Carso e il padre dell’altro zio, capitano in aviazione, morto durante un combattimento. Esempi di sacrificio e attaccamento al dovere che hanno ispirato il magistrato per la vita.
Dirà lui stesso: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”
La formazione
Giovanni Falcone frequenta il liceo classico Umberto I. Grazie al suo insegnante, Franco Salvo, professore di storia e filosofia, scopre il materialismo storico e il marxismo, si appassiona allo studio critico della storia e inizia a guardare con altri occhi alle dinamiche sociali.
Alla licenza liceale, conseguita con il massimo dei voti e il diritto all’esonero dalle tasse universitarie, segue una breve esperienza all’Accademia navale, dove viene subito spedito allo Stato Maggiore perché, si sostiene, ha attitudini al comando.
Ma Falcone scopre presto che la vita militare non fa per lui e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Quando entra all’università, sa già che la sua strada sarà la magistratura.
Questo è anche il periodo in cui riesce a coltivare lo sport, una passione mai abbandonata: atletica, ginnastica, canottaggio e nuoto. Frequenterà la piscina comunale fino a metà degli anni ‘80, quando la vita blindata a cui è costretto non glielo consentirà più. Nel 1962, ad una festa, conosce Rita e se ne innamora. Due anni dopo, mentre sostiene il concorso per entrare in magistratura, decidono di sposarsi.
L'esordio in magistratura: Trapani
Nel 1965 ottiene il primo incarico come pretore a Lentini, dove si ferma due anni.
Nel 1967 viene trasferito a Trapani, città in cui inizia la sua vera storia professionale e matura la sua cultura giuridica e politica.
È lì, durante il processo contro le cosche del trapanese, che avviene il suo primo incontro con i clan e con un capomafia: Mariano Licari.
Dirà di lui Falcone nel 1985: “Mi imbattei in un boss di rango. Era Mariano Licari, un patriarca trapanese. Lo vidi in dibattimento, in Corte d’Assise. Era sufficiente osservare come si muoveva per intravedere subito il suo spessore di patriarca”.
Alla fine il processo contro Licari viene trasferito in una sede diversa e naufraga: ancora una volta vince il cavillo della legittima suspicione la ricusazione di una Corte ritenuta dagli imputati “prevenuta”). Trapani non potè giudicare la sua mafia. “La giustizia subì una sconfitta”, dirà Falcone, ma quella battaglia gli fece intravedere una nuova strada da percorrere per potenziare le indagini e trovare altre prove: gli accertamenti patrimoniali sulla consistenza economica dei boss.
È ancora a Trapani che il giovane magistrato si trova a rischiare per la prima volta la vita: mentre è in carcere come giudice di sorveglianza, a Favignana, un terrorista appartenente ai nuclei armati proletari lo prende in ostaggio puntandogli un coltello alla gola. In cambio del rilascio chiede e ottiene di poter fare delle dichiarazioni alla radio.
Nel 1978 Giovanni Falcone chiede il trasferimento a Palermo e viene assegnato alla sezione fallimentare. Nel 1979 si separa dalla moglie e approda alla giustizia penale.
L'arrivo al Palazzo di Giustizia di Palermo
L’attività di Giovanni Falcone al Palazzo di Giustizia di Palermo coincide con un momento molto grave per la città, che nel settembre del 1979 aveva assistito all’uccisione del giudice Cesare Terranova.
Rocco Chinnici, il magistrato che era stato mandato a dirigere l’Ufficio Istruzione e che da tempo invitava Giovanni Falcone a seguirlo, riesce finalmente a convincerlo.
Da quel momento inizia per lui l’avventura professionale e umana più importante della sua vita.
Il processo a Rosario Spatola
Il business della droga oltreoceano
Appena Falcone comincia a leggere le carte delle indagini sull’imprenditore mafioso italo-americano Rosario Spatola, si rende conto di essersi imbattuto in un’inchiesta che riguarda i piani alti della mafia economica e finanziaria.
Un’inchiesta che, muovendo da Cosa nostra militare palermitana, passa per il mondo politico-finanziario di Michele Sindona e arriva fin negli Stati Uniti e al gruppo mafioso legato al faccendiere siciliano.
Si tratta della più potente associazione criminale dell’epoca, che controlla in quegli anni il commercio mondiale della droga di cui reinveste gli enormi proventi in attività lecite dopo averli “ripuliti” attraverso le banche. Aprendo quel libro Falcone capisce subito di trovarsi di fronte a una realtà criminale di straordinaria pericolosità. Lo confermeranno la lunga catena di sangue che parte dagli omicidi interni a Cosa nostra e arriva ai delitti di servitori dello Stato come il vice-questore Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore Gaetano Costa. Falcone non si ferma nonostante sappia bene quali rischi corra.
Il metodo investigativo che rivoluzionerà la storia della lotta a Cosa nostra nasce allora. Estende le ricerche al campo patrimoniale, una via fino ad allora poco esplorata, riuscendo a superare il segreto bancario e ottiene la collaborazione di istituti di credito e finanziarie nazionali ed estere per ricostruire i movimenti di capitali sospetti. Il suo metodo lo espone ulteriormente, perché permette di indagare in modo efficace sui capitali del clan mafioso degli Spatola-Inzerillo. Si decide quindi di assegnargli la scorta: è il 1980.
Le indagini danno il risultato sperato e il processo Spatola si conclude con condanne esemplari. È la prima incrinatura nel muro dell’invincibilità di Cosa nostra.
Ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983 un’autobomba massacra Chinnici insieme alla scorta e al portiere della sua casa in via Pipitone. Le immagini di “Palermo come Beirut”, il palazzo di Chinnici devastati, fanno il giro del mondo. La città, che si sente profondamente violata e scossa, affida a Giovanni Falcone le paure e le speranze di riscatto. Il giudice diventa un simbolo.
Chinnici è l’ennesima vittima dello Stato: la mafia aveva già ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice-questore Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il giornalista Mario Francese, i presidenti della Regione Pier Santi Mattarella, il segretario del PCI siciliano Pio La Torre, il procuratore Gaetano Costa, il giudice Cesare Terranova, l’agente di polizia Calogero Zucchetto, il medico Paolo Giaccone, e, come estrema sfida, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, mandato a Palermo, senza poteri e senza mezzi, per contrastare i clan. Verrà ucciso a colpi di kalashnikov con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo il 3 settembre del 1982, a 100 giorni dal suo insediamento.
Con l’arrivo a Palermo la vita di Giovanni Falcone non cambia solo professionalmente.
Nel 1979 conosce Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e se ne innamora.
Si sposano nel 1986. Uno dei testimoni è Antonino Caponnetto, capo del pool antimafia. Francesca Morvillo resta al fianco del marito condividendo difficoltà e rinunce fino alla fine. Sarà uccisa nell’attentato di Capaci, insieme a lui, a soli 47 anni, unica donna magistrato in Italia vittima di un attentato mafioso. Laureata a 22 anni in Giurisprudenza con una tesi su “Stato di diritto e misure di sicurezza”, un lavoro premiato con il riconoscimento Giuseppe Migliore per la miglior tesi nelle discipline penalistiche del suo anno di laurea, il 1967, cresce con la passione per la toga. Un amore di famiglia in casa Morvillo. Magistrato era il padre Guido, magistrato il fratello Alfredo, che lavorerà poi con Giovanni Falcone.
Prima giudice ad Agrigento, poi sostituto procuratore dei Minori a Palermo e ancora consigliere di corte d’Appello, negli ultimi mesi della sua vita, anche per stare più vicino al marito che nel frattempo era andato a Roma al ministero della Giustizia, Francesca Morvillo chiede di far parte della commissione per il concorso in magistratura e riesce a trasferirsi nella Capitale. La Presidenza della Repubblica nell’attribuirle la medaglia d’oro al valor civile la ricorda con queste parole: “pur consapevole dei gravissimi pericoli cui era esposto il coniuge, gli rimaneva costantemente accanto sopportando gli stessi disagi e privazioni, sempre incoraggiandolo ed esortandolo nella dura lotta intrapresa contro la mafia. Coinvolta, insieme al magistrato, in un vile e feroce agguato, sacrificava la propria esistenza vissuta coniugando ai forti sentimenti di affetto, stima e rispetto verso il marito, la dedizione ai più alti ideali di giustizia“.
Il pool antimafia
Nasce il “pool antimafia”, la squadra che dovrà affrontare Cosa nostra per quel che è: non un insieme di bande, ma, secondo l’ipotesi di Falcone, che Caponnetto condivide, un’organizzazione unica con struttura verticistica al cui interno non esistono gruppi con capacità decisionale autonoma.
All’indomani dell’assassinio di Rocco Chinnici, come suo successore a dirigere l’Ufficio Istruzione viene mandato Antonino Caponnetto. È un magistrato siciliano quasi sconosciuto ai palermitani. Ha lavorato a lungo a Firenze e crede nelle capacità di Giovanni Falcone, che appoggerà e sosterrà. Nasce il “pool antimafia”, la squadra che dovrà affrontare Cosa nostra per quel che è: non un insieme di bande, ma, secondo l’ipotesi di Falcone, che Caponnetto condivide, un’organizzazione unica con struttura verticistica al cui interno non esistono gruppi con capacità decisionale autonoma. Il lavoro parcellizzato di un tempo viene sostituito con l’indagine équipe, la condivisione delle informazioni per cogliere le relazioni e le dinamiche delle strategie di Cosa nostra.
Il frutto più importante dell’attività del pool, composto da Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, sarà il maxi-processo. All’origine della mega-inchiesta c’è il rapporto di polizia redatto da Ninni Cassarà, vice questore della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone: è la ricostruzione minuziosa dell’origine della guerra di mafia che porterà i corleonesi di Totò Riina ai vertici dell’organizzazione criminale.
Alla fine del 1984 il pool è al massimo dell’impegno e dei risultati: a ottobre, in Canada, Falcone ottiene le prove che gli consentiranno di arrestare Vito Ciancimino con l’accusa di associazione mafiosa e di esportazione di capitali all’estero. Qualche giorno dopo vengono arrestati per mafia anche gli intoccabili esattori di Palermo, Nino ed Ignazio Salvo. La città guarda sbigottita la sfilata di manette eccellenti. Giovanni Falcone diventa simbolo di una Sicilia che cambia.
Il maxiprocesso
L’8 novembre del 1985 il pool deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio contro 475 imputati. Il 10 febbraio 1986 inizia il primo maxiprocesso a Cosa nostra, il traguardo più importante di Giovanni Falcone
Ventidue mesi di udienze in un’aula bunker appositamente costruita in cemento armato, in grado di resistere anche ad attacchi missilistici e di dimensioni tali da poter contenere il gran numero di imputati e permettere ai giudici di lavorare in sicurezza. Alla sbarra il gotha di Cosa nostra.
Gli imputati sono accusati di 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e associazione mafiosa. Le prove più significative – pazientemente riscontrate –vengono dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi”, catturato in Brasile due anni prima.
Il 16 dicembre del 1987 il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza. Tutti, il giudice a latere Piero Grasso, il pubblico ministero Giuseppe Ayala, i giurati popolari, centinaia di avvocati, restano in piedi per ore ad ascoltare il lungo elenco di condanne. Ai 339 imputati vengono inflitti 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Palermo, l’Italia scoprono che la mafia non è impunibile. L’“astronave verde”, come viene definita dai giornalisti di tutto il mondo l’aula bunker per il colore dei muri delle celle, diventa il simbolo del riscatto dello Stato e della Sicilia.
E’ passata la tesi dell’unicità di Cosa nostra nata all’epoca dell’inchiesta Spatola, confermata durante il maxiprocesso da Tommaso Buscetta. Ed è proprio l’ex boss, nato a poche centinaia di metri dalla piazza della Magione in cui era cresciuto Giovanni Falcone, a condurlo per mano nel labirinto di Cosa nostra.
“Prima di lui non avevo, non avevamo, che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. – dirà nel libro ‘Cose di Cosa nostra’ – Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare a gesti”.
Qualche mese dopo, nel maggio del 1986, il giudice si sposa con Francesca Morvillo.
Ma la reazione al grande successo conseguito col maxiprocesso non si fa attendere. Caponnetto va in pensione ed è costretto a lasciare il pool. Tutti si aspettano che sia Falcone a prendere il suo posto, anche Caponnetto, che lo considera il suo erede naturale per esperienza e capacità di indagine. Non la pensa così il Consiglio Superiore della Magistratura che nomina alla guida dell’ufficio istruzione Antonino Meli, un magistrato di vecchia scuola che non condivide il metodo Falcone e di fatto smantella il pool. Meli nega il principio cardine del maxiprocesso, cioè la struttura unitaria di Cosa nostra, e asseconda invece la vecchia tesi della mafia come insieme di bande criminali. Frantuma i processi e li distribuisce in vari uffici, col risultato disastroso di far perdere il nesso tra vicende che, senza un filo conduttore, diventano poco comprensibili. Comincia per Giovanni Falcone un periodo molto difficile.
L'attentato all'Addaura e la congiura del "Corvo"
Il 1989 è l’anno dei veleni al palazzo di giustizia di Palermo. Falcone viene accusato in un anonimo di aver fatto ritornare in Italia il pentito Salvatore Contorno, esponente della mafia perdente, sterminata dai corleonesi di Totò Riina, e di averlo coperto nel progetto di eliminazione dei capimafia nemici usciti vincitori dalla guerra tra clan. Falsità espresse in lettere anonime, passate alla storia come le lettere del “corvo”, ed inviate a vari rappresentanti delle istituzioni.
Il 20 giugno del 1989 Falcone sfugge a un agguato tesogli nella villa all’Addaura in cui trascorreva l’estate: un borsone con cinquantotto candelotti di dinamite posto sulla scogliera dove era solito fare il bagno, viene trovato per caso da un agente della scorta. La bomba viene disinnescata e l’attentato fallisce. È lo stesso Falcone a spiegare il senso di un attentato i cui reali contorni non sono mai stati chiariti. Il giudice parla di una manovra ideata in maniera perfetta da “menti raffinatissime”, adatta a dar credito alle accuse delle lettere diffamatorie del “corvo”. “Il contenuto delle accuse doveva essere il movente che aveva spinto la mafia a uccidermi. Sarei stato un giudice delegittimato perché scorretto, l’omicidio sarebbe stato giudicato quasi naturale”.
Dopo l’attentato dell’Addaura, per diretto interessamento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Falcone viene nominato dal Consiglio superiore della Magistratura procuratore aggiunto di Palermo. Ma il “corvo” continua ad avvelenare il clima del Palazzo di Giustizia. Pur avversato e ostacolato, Falcone va avanti. Già nel 1988 aveva collaborato con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, nell’operazione “Iron Tower”, inchiesta che aveva disarticolato due famiglie mafiose coinvolte nel traffico di eroina, quelle dei Gambino e degli Inzerillo. Nel gennaio ’90 coordina un’indagine che porterà all’arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani.
Il clima ostile del Palazzo cresce e Falcone si rende presto conto di trovarsi isolato. Teso il rapporto con il procuratore Piero Giammanco che ne ostacola sistematicamente il lavoro costringendolo a limiti angusti nella manovra delle indagini. Falcone avverte che a Palermo, non riesce più a lavorare come vorrebbe e che i quotidiani dissensi lo logorano. Decide così di accogliere l’invito del ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli a ricoprire il ruolo di Direttore degli Affari Penali al Ministero dove prende servizio nel novembre del 1991.
Al Ministero di Grazia e Giustizia
Fa in modo di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure.
Martelli dimostra subito di voler dare alla sua azione una forte connotazione antimafia e Falcone capisce quanto pot rebbe essere determinante il suo ruolo nell’elaborazione di nuovi strumenti legislativi per rendere più efficace il lavoro della magistratura contro la criminalità organizzata. Perciò fa in modo di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure. In un primo momento pensa di rivolgersi ai procuratori generali, ma vista la reazione negativa delle gerarchie della magistratura, decide di istituire una serie di Procure distrettuali con esclusive competenze di contrasto alla mafia e direttamente dipendenti dai capi degli uffici. Per garantire, inoltre, la circolazione delle notizie in tutto il territorio nazionale e un’azione coordinata ed efficace suggerisce con successo la costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione Nazionale Antimafia, generalmente nota come Superprocura. Ma quando Falcone viene indicato come il naturale candidato a questo nuovo ufficio, come un copione che si ripete, subisce l’ostilità di molti colleghi, che lo accusano di voler impadronirsi di uno strumento di potere da lui stesso ritagliato sulla sua persona.
Non è la Superprocura l’unico strumento di contrasto alla mafia pensato da Falcone. In quello stesso periodo vengono gettate le basi per la nascita di norme e leggi che regolano la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prende corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi che solo dopo la morte di Falcone verrà però realizzato.
Il 30 gennaio del 1992, con una sentenza storica, la Cassazione riconosce valido l’impianto accusatorio che aveva portato alla sentenza di primo grado del maxi processo. La Suprema Corte ripristina gli ergastoli e le condanne per boss e gregari annullati in appello. Il cosiddetto “teorema Buscetta” è sancito definitivamente. Il maxi-processo ha retto alla prova finale.
L’apice del successo sarà proprio l’inizio della fine del giudice. Cosa nostra si trova a fare i conti con le condanne definitive. Totò Riina lo condanna a morte. Falcone sa da anni che il conto con la mafia è aperto e vive con la certezza che prima oi poi quel conto Cosa nostra lo salderà.
Il 23 maggio 1992, Giovanni e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall’aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto blindate li aspettano.
È la scorta di Giovanni, la squadra che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell’Addaura.
Dopo aver imboccato l’autostrada che porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
La strage di Capaci
La rinascita
La morte di Giovanni Falcone rappresenta paradossalmente l’inizio della fine per Cosa nostra. Scossa dal tritolo di Capaci, Palermo si risveglia, scende in piazza e grida forte il suo no alla mafia.
Il 19 luglio del 1992, a 57 giorni dall’attentato, la mafia torna ad alzare il tiro e uccide Paolo Borsellino, collega e amico di una vita di Falcone, e la sua scorta.
Lo Stato decide di fare sul serio nella lotta alle cosche.
Tutti i più grandi latitanti, tranne il boss Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine non si è mai fermata.
Nella società è certamente cresciuta e si è consolidata una coscienza antimafiosa. Un risorgimento civile che, però, deve essere tenuto vivo. Nella guerra allo Stato la mafia è pronta ad approfittare di ogni indecisione. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della società.
Spetta a tutti noi mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e portare avanti la lezione di legalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato.
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