Libero Grassi, l’imprenditore che disse no al pizzo e pagò con la vita il suo coraggio, nel ricordo del procuratore di Messina Maurizio de Lucia, magistrato a lungo pm a Palermo dove ha condotto alcune tra le principali inchieste su mafia ed estorsioni degli ultimi anni.
Sono passati 27 anni da quel 29 agosto 1991. Alle 7,36 in una città che stentava a svegliarsi, Libero Grassi fu colpito alla schiena, da assassini ai quali erano bastati pochi appostamenti per stabilire l’ora migliore per l’omicidio.
La sua fabbrica, la Sigma, produceva pigiami, esportava anche all’estero, aveva 100 dipendenti, e nel 1990 fatturava sette miliardi di lire.
La colpa di Grassi, chiamato Libero in omaggio dei suoi al sacrificio di Giacomo Matteotti, non era solo quella di non aver pagato il pizzo, la sua colpa era di avere denunciato tutto e, soprattutto, di avere istigato alla ribellione quelli come lui. Lo aveva fatto nel modo più plateale possibile, scrivendo al principale quotidiano di Palermo sicuro che quel messaggio sarebbe arrivato a destinazione. Scelse il Giornale di Sicilia, all’epoca lo specchio fedele dell’anima della città. E in una lettera comparsa il 10 gennaio del 1991 spiegò perché un Mercante come lui non avrebbe ceduto un solo centesimo del proprio profitto ai grassatori delle cosche.
“Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere … Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.
Firmò così la sua condanna a morte. Ma in qualche modo consegnò alla storia della coscienza civile dell’intero Paese una verità scomoda e imbarazzante ancora oggi.
Palermo, oggi e ancora di più nell’ agosto 1991, è capoluogo di un’isola che resta in fondo alle classifiche del gettito fiscale, la riscossione del pizzo era ed è una macchina formidabile di esazione che non conosce zone franche ed evasori, né totali, né parziali. Agli uomini della mafia bastava chiedere per avere e attraverso quella tassa rinsaldare un legame, un rapporto che in un abbraccio mortale tiene insieme vittime ed estorsore. Un ricatto per chi la vive con violenza, un patto tacito, un accordo che promette sicurezza a fronte di cifre mai esagerate per la gran parte di quelli che accettano di sottostare.
Il collaboratore di giustizia Francesco Onorato ebbe a spiegare: «Le estorsioni sono un fatto normale, tranquillo, perfetto, cioè loro sono contenti di uscirli, perché è una forma… 500 mila lire al mese, e quindi per loro sono niente, perché lavorano e stanno tranquilli. Poi non sono mai maltrattati da nessuno. Sì, un accordo, proprio così».
Due mondi lontani, quello del libero mercato dei commerci e dell’imprenditoria e quello della cieca e bestiale violenza di contadini arricchiti e di guappi di periferia cresciuti a miseria e pistole, vengono in contatto, si saldano, si riconoscono e si legittimano vicendevolmente.
Nell’estorsione c’è una faccia della mafia che utilizza “l’industria della protezione privata”, secondo la definizione del sociologo Diego Gambetta, ma il cui profitto, comunque ragguardevole, non è principalmente quello economico quanto piuttosto l’accreditamento come canale di mediazione sociale a qualunque livello.
Questo aveva senz’altri ben chiaro Libero Grassi. Che ripeté il suo punto di vista l’11 aprile del 1991 in televisione a Samarcanda la trasmissione di Michele Santoro. E lo ribadì in una lettera che il Corriere della Sera pubblicò il giorno dopo la sua morte, il 30 agosto 1991. Era la testimonianza autentica, ancorché postuma, dei mesi che erano trascorsi tra le prime denunce, le uscite pubbliche e il gelo che aveva circondato quella solitaria ribellione. Ma anche un dito puntato contro le istituzioni impotenti, complici o timide. Non a caso Grassi citava la sentenza che aveva mandato assolti i cavalieri del lavoro catanesi Costanzo e Graci, scesi a patti con la mafia eppure considerati vittime in stato di necessità ambientale.
“La “Sigma” – scrisse Grassi – è un’azienda sana, a conduzione familiare. Da anni produciamo biancheria da uomo: pigiami, boxer, slip e vestaglie di target medio-alto che esportiamo in tutta Europa. Abbiamo 100 addetti: 90 donne e 10 uomini. Il nostro giro d’affari è pari a 7 miliardi annui. Evidentemente è stato proprio l’ottimo stato di salute dell’impresa ad attirare la loro attenzione.
La prima volta mi chiesero i soldi per i “poveri amici carcerati”, i “picciotti chiusi all’Ucciardone”. Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: “Attento al magazzino”, “guardati tuo figlio”, “attento a te”. Il mio interlocutore si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli.
Il 10 gennaio 1991 scrissi una lettera al “Giornale di Sicilia” che iniziava così: “Caro estortore…”. La mattina successiva qui in fabbrica c’erano dei carabinieri, dieci televisioni e un mucchio di giornalisti. A polizia e carabinieri consegnai 4 chiavi dell’azienda chiedendo loro protezione.
Mentre la fabbrica era sorvegliata dalla polizia entrarono due tipi strani. Dissero di essere “ispettori di sanità”. Fuori però c’era l’auto della polizia e avevano grande premura. Volevano parlare a tutti i costi con il titolare. Scesi e dissi loro che il titolare riceve solo per appuntamento e al momento era impegnato in una riunione. Se ne andarono. Li descrissi alla polizia e loro si accorsero che altri imprenditori avevano fornito le medesime descrizioni. Gli esattori del “pizzo”, i due che indifferentemente si facevano chiamare geometra Anzalone, altri non erano che i fratelli gemelli Antonio e Gaetano Avitabile, 26 anni. Furono arrestati il 19 marzo insieme ad un complice.
Una bella soddisfazione per me, ma anche qualche delusione; il presidente provinciale dell’Associazione industriali, Salvatore Cozzo, dichiarò che avevo fatto troppo chiasso. Una “tamurriata” come si dice qui. E questo, detto dal rappresentante della Confindustria palermitana, mi ha ferito. Infatti dovrebbero essere proprio le associazioni a proteggere gli imprenditori. Come? È facile. Si potrebbero fare delle assicurazioni collettive. Così, anche se la mafia minaccia di dar fuoco al magazzino si può rispondere picche. Ma anche a queste mie proposte il direttore dell’Associazione industriali di Palermo, dottor Viola, ha detto no, sostenendo che costerebbe troppo. Non credo però si tratti di un problema finanziario, è necessaria una volontà politica.
L’unico sostegno alla mia azione, a parte le forze di polizia, è venuta dalla Confesercenti palermitana. Devo dire di aver molto apprezzato l’iniziativa SoS Commercio che va nella stessa direzione della mia denuncia. Spero solo che la mia denuncia abbia dimostrato ad altri imprenditori siciliani che ci si può ribellare.
Non ho mai avuto paura ed ora mi sento garantito da ciò che ho fatto. La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi Russo (del 4 aprile 1991) che ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare la “protezione” ai boss mafiosi, è sconvolgente. In questo modo infatti è stato legittimato con il verdetto dello Stato il pagamento delle tangenti. Così come la resa delle istituzioni e le collusioni. Proprio ora che qualcosa si stava muovendo per il verso giusto.
Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso delle scarcerazioni dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento; e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che come me hanno invece cercato di ribellarsi?
Ora più che mai le Associazioni imprenditoriali che non si impegnano sinceramente su questo fronte vanno messe con le spalle al muro. La risposta infatti deve essere collettiva per spersonalizzare al massimo la vicenda”.
Il 24 aprile del 1992 è stato arrestato uno degli uomini di punta della famiglia mafiosa dei Madonia, quella che venne individuata dalle indagini come l’ideatrice del delitto: Marco Favaloro, commerciante d’auto. Un anno dopo iniziando a collaborare con la giustizia si accusa del delitto Grassi e accusa Salvino Madonia di aver sparato.
“Prima di ammazzarlo lo pedinai per una settimana per controllare se si spostava in compagnia di qualcuno o se era scortato. Quando fummo certi che usciva sempre da solo, Salvatore Madonia decise di sparargli”, racconta Favaloro. Verso la fine dell’ agosto del ’91 Madonia mi portò in via Alfieri indicandomi un portone e l’ automobile dell’ uomo che mi disse di seguire per verificare se avesse persone che gli andavano dietro”. Favaloro obbedì. L’uomo che gli era stato detto di controllare e che indossava “sandali alla francescana” si muoveva da solo. “Il giorno stabilito per l’ omicidio, Madonia mi diede appuntamento nei pressi di un’ edicola in via Libertà. Madonia guidava un’ Alfa 33 di colore verde scuro ed io lo seguii con la mia automobile che parcheggiammo nei pressi dell’ abitazione dell’ obiettivo. Salvino Madonia mi disse allora di trasferirmi sulla sua automobile affiancando quella di Libero Grassi che era posteggiata sotto casa. Da una borsa prese due pistole, una piatta e una a tamburo e Madonia mi raccomandò di tenere il motore acceso e lo sportello anteriore destro aperto per facilitare la fuga. Quando quell’ uomo uscì dal portone dell’ edificio dove abitava, Madonia scese dall’ automobile con la pistola nascosta in mezzo a un giornale, gli si avvicinò e sparò tutti i colpi della pistola, quindi rientrò in macchina e fuggimmo”.
La sentenza che ha condannato il Madonia all’ergastolo è ormai definitiva.
L’insegnamento di Libero Grassi è di enorme, stringente attualità, soprattutto in un momento in cui in tanti osservano che la c.d. mafia militare è stata sconfitta. La mafia, tutta la mafia, perché non esiste una mafia militare distinta da una mafia “politica” o “alta” come si diceva un tempo, potrà essere davvero sconfitta solo quando le denunce delle estorsioni diventeranno un fenomeno esteso e generalizzato. Ora non è ancora così.
Libero Grassi è stato davvero un grande italiano. In qualche modo il suo sacrificio ricorda quello di un altro grande italiano, l’avvocato Giorgio Ambrosoli. In entrambi i casi infatti non si è davanti al sacrificio di magistrati o investigatori, uomini che per scelta fatta all’inizio della loro professione devono mettere in conto la possibilità che la mafia o altri poteri possano “fargliela pagare” in qualche modo. Nel caso dell’avvocato Ambrosoli e di Libero Grassi, il sacrificio dipende da una straordinaria manifestazione di impegno civile di due semplici cittadini, Non uomini dello Stato, ma essi stessi espressione, la più nobile e profonda della comunità nazionale.